Perché bagno Maria

Molte volte, nei ricettari relativi alla preparazione e alla conservazione dei cibi, leggiamo la frase “lasciare a bagnomaria per 15/20 minuti”. Mi chiedo il perché di questa affermazione e dopo aver compiuto le mie ricerche, posso dire che tutto mi riporta alla sorella di Mosè, Miriam cioè Maria, che affidò alle acque del Nilo il piccolo appena nato, posto in un cesto e sorvegliato dalla sorellina. Molti riferiscono il termine bagnomaria a Maria la Giudea, vissuta fra il I e il III secolo d. C. ma questa ipotesi non è del tutto accettata.

La storia dice che la figlia del faraone, alla vista del neonato, presa da tanta tenerezza, salvò il bambino pur sapendo che era ebreo. Nell’Antico Testamento e in particolare nel libro dell’Esodo, capitolo 2/ vv.1-10, così leggiamo : “Un uomo della famiglia di Levi andò a prendere in moglie una figlia di Levi. La donna concepì e partorì un figlio; vide che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi. Ma non potendo tenerlo nascosto più oltre, prese un cestello di papiro, lo spalmò di bitume e di pece, vi mise dentro il bambino e lo depose fra i giunchi sulla riva del Nilo”……la sorella del bambino disse allora alla figlia del faraone: devo andarti a chiamare una nutrice tra le donne ebree perché allatti per te il bambino? Così la madre del piccolo, lo allattò e appena cresciuto, lo portò alla figlia del faraone, che lo accolse con grande affetto. Egli divenne un figlio per lei, tanto da chiamarlo Mosè, che significa salvato dalle acque. Una storia bellissima, ricca di sentimento e di tenerezza per la decisione della madre e per la generosità della nobile figlia del faraone. Nel libro dell’Esodo leggiamo della vocazione di Mosè, della sua missione, della voce di Dio che gli parla dal roveto ardente, lo stesso Dio che sul monte Sinai gli affiderà le Tavole della legge, che conosciamo come i Dieci Comandamenti. Ritorno alla frase citata all’inizio di questa pagina, bagnomaria. Per gli Ebrei era una usanza, comune a tutti i ceti sociali, cucinare certe pietanze utilizzando un recipiente piccolo, che veniva immerso, con il cibo, nell’acqua bollente di un recipiente più grande. Il cibo non viene a contatto della fiamma e cuoce in modo delicato e graduale. Questo metodo veniva utilizzato per i riti di magia in uso presso i popoli antichi. Una semplice curiosità, ha sollecitato in me la rilettura del libro dell’Esodo, che ci propone tante verità che ritroveremo nel Nuovo Testamento. La Bibbia è un libro sacro, ogni pagina invita alla riflessione e alla riscoperta di una Verità, che contiene in sé i valori necessari per la vita di ognuno. Leggere il testo sacro o altri libri, in questo periodo così difficile e tormentato, può essere utile e piacevole, a parte la conoscenza e l’arricchimento culturale che un buon libro trasmette a ciascuno di noi.

27 gennaio Giornata della memoria

Olocausto negato

sterminio vero

inaudito, disumano.

Negano l’olocausto

gli sprovveduti

i fanatici di oggi

coloro che vivono

 nel caos della malvagità

e della confusione.

Negano, ma sappiamo

che la verità del diario

della giovanissima

Anna Frank

trasmette sofferenza

 e speranza

fiducia e amore

per la vita.

Etty Hillesum

vittima olandese

nelle sue lettere

descrive i misfatti

della deportazione

dello sterminio

con accenti di speranza

 e di fede nel domani.

Doveroso ricordare

ricordare sempre

con profondo Amore.

La Sicilia di Leonardo Sciascia

Lo scrittore Leonardo Sciascia, intervistato dalla giornalista Marcelle Padovani, spiegava le origini arabe del suo cognome, che fin al 1860, veniva segnato sui registri dell’Anagrafe, come Xaxa, che allora veniva letto Sciascia. Della sua vita lo scrittore affermava :”Così è la vita, la tua e la mia, un sogno fatto in Sicilia” e inoltre, “incredibile è l’Italia e bisogna andare in Sicilia per constatare quanto è incredibile l’Italia”. Nella raccolta La Sicilia, il suo cuore(1952), Sciascia dimostra che la Sicilia è un modo di essere, uno stato d’animo. Il suo amico Renato Guttuso, famoso pittore, dichiarava: “Anche se dipingo una mela, c’è la Sicilia”. La vita di Leonardo Sciascia a Racalmuto, dove era nato nel 1921, trascorreva serenamente, seguito dalle zie , maestre elementari. Ben presto iniziò ad amare la lettura e lo studio, sollecitato da viva curiosità intellettuale e dal desiderio di conoscere e di sapere. Alunno di Vitaliano Brancati, trovò un impiego al Demanio comunale, poi insegnò nella scuola elementare fino al 1957, quando decise di dedicarsi al giornalismo, al romanzo, alla saggistica. Amante dei viaggi, della letteratura francese e americana, negli anni ’50 pubblicò le sue poesie in Francia, poiché in Italia l’autore non venne capito e apprezzato. Nel romanzo Le parrocchie di Regalpetra del 1956, Sciascia racconta della sua vita, delle tradizioni, delle feste religiose, della situazione siciliana in quegli anni, della mentalità diffusa, temi che troviamo in tutti gli altri libri, in particolare ne Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Gli zii di Sicilia, per citarne solo alcuni. Il suo stile è limpido, geniale, pervaso di malinconia e di umorismo, e alla maniera di Borges, colmo di tensione, incline a riflessioni filosofiche e pessimistiche. I romanzi di Sciascia sono simili ai gialli, ma senza una lieta conclusione, perché l’autore descrive la realtà e la malvagità dei potenti, con distacco illuministico, crede profondamente nella giustizia, nella ragione, nella verità e di conseguenza sottolinea le contraddizioni della Sicilia e dell’umanità tutta con ironia e con lucidità, che derivano da una sorta di malinconia soffusa e mai dichiarata. La Sicilia del nostro autore guarda se stessa in uno specchio e vede in esso la sua realtà, amara e piena di contraddizioni, ma ricca di una natura che trasmette bellezza e armonia.

Come Chagall, vorrei cogliere questa terra
dentro l’immobile occhio del bue.
Non un lento carosello di immagini,
una raggiera di nostalgie: soltanto
queste nuvole accagliate,
i corvi che discendono lenti
e le stoppie bruciate, i radi alberi
che s’incidono come filigrane.
Un miope specchio di pena, un greve destino
di piogge: tanto lontana è l’estate
che qui distese la sua calda nudità
squamosa di luce – e tanto diverso
l’annuncio dell’autunno,
senza le voci della vendemmia.
Il silenzio è vorace sulle cose.
S’incrina, se il flauto di canna
tenta vena di suono e una fonda paura dirama.
Gli antichi a questa luce non risero,
strozzata dalle nuvole, che geme
sui prati stenti, sui greti aspri,
nell’occhio melmoso delle fonti;
le ninfe inseguite
qui non si nascosero agli dei gli alberi
non nutrirono frutti agli eroi.
Qui la Sicilia ascolta la sua vita.

Leonardo Sciascia (La Sicilia, il suo cuore 1952)

Leonardo Sciascia poeta

autore: F.Romagnoli

Scritte da Leonardo Sciascia con una finezza e una leggerezza di dettato sorprendenti in un’opera d’esordio, le giovanili Favole della dittatura (1950) sono anzitutto quello che sembrano: ovvero trasparentissime, appuntite allegorie che denunciano gli orrori della dittatura fascista, da pochi anni conclusa, e di tutte le dittature e le tirannie, con i loro archetipi comportamentali sinistri e grotteschi. Così, nell’uomo “chiuso e rigido dentro tanto splendore”, il lettore scorgerà infallibilmente un Ciano o uno Storace: ma soprattutto non potrà non cogliere nella contrapposizione tra lupo e agnello, gatto e canarino, uomo e topo, padrone e asino (o cane) la divisione tra carnefici e vittime, dominanti e dominati; nei corvi (neri) gli integrati e gli organici e nei passeri e nei colombi i disorganici; e ancora in porci, faine, volpi, lumache e talpe altrettante allusioni ai tipi – e ai loro tic – di ogni regime. Come notò Pasolini, che fu tra i primi lettori di queste favole,” l’elemento greve, tragico della dittatura, ha grande parte in queste pagine così lievi, ma è trasposto tutto in rapidissimi sintagmi, in sorvolanti battute che però possono far rabbrividire“. Lo stesso sapore metafisico ritroviamo anche nelle poesie pressoché coeve alle Favole, raccolte sotto il sintomatico titolo La Sicilia, il suo cuore(1952). In versi di straordinaria economia espressiva, dove l’autore già rivela la sua innata capacità di contemperare ricchezza di immagini e asciuttezza di scrittura, avvertiamo infatti l’arcana risonanza che si leva dalle descrizioni dei luoghi, come se qui la parola riuscisse a ridurre alla quintessenza l’anima della Sicilia, il suo cuore di ulivi, di mandorli, di roveti, dove risuona “cupo il passo degli zolfatari”.

Il nostro cammino

Camminare è una prerogativa dell’essere umano, dai primi passi della sua infanzia all’adolescenza, alla giovinezza, alla maturità e alla ultima stagione, definita terza età, o più propriamente vecchiaia. Il grande Picasso, all’età di 90 anni, affermava: “Ogni giorno imparo ad essere giovane“, dimostrando la sua vitalità e genialità. Uno scrittore dei nostri giorni, Antonio Polito, intervistato, ha parlato del suo libro Le regole del cammino. In viaggio verso il tempo che ci attende, ricordando Dante, viator peregrinus, autore della Divina Commedia e il suo viaggio nei tre regni dell’oltretomba, con la discesa all’Inferno e la risalita della montagna del Purgatorio per giungere al Paradiso terrestre e celeste, con l’aiuto di Virgilio (la ragione umana) e di Beatrice (la Sacra Rivelazione o Teologia). Altro argomento, presente nel testo prima citato, è il Cammino di San Benedetto, da Norcia a Montecassino, percorso che i pellegrini scelgono per la esigenza di una ricerca interiore, per un bisogno di riscoprire il sacro, recuperando il passato e proiettandosi nel futuro. Spesso sentiamo in noi di “essere un popolo in cammino”, come affermano i teologi, ma la consapevolezza di essere presenti in questo nostro mondo, travagliato da molti flagelli, dalla corruzione al disastro ambientale, dalla violenza alle catastrofi naturali, dovrebbe aiutarci a continuare il nostro tratto di strada con maggiore fiducia in noi stessi. Seneca affermava: Anche se il timore avrà sempre più argomenti, scegli la speranza“, riflessione molto attuale e significativa. Ripensando ai miei anni giovanili, rivedo Santiago di Compostela, che ho visitato insieme ad alcuni amici, che di solito decidevano di seguire la via Francigena per arrivare al passo del Moncenisio o del Monginevro, continuando il cosiddetto Cammino di Santiago, definito dal Consiglio d’Europa, nel 1987, primo itinerario culturale europeo. Penso che continuare il nostro percorso di vita, accettando e valutando tutto quello che accade giorno per giorno, possa essere un modo per vivere meglio.

Inno alla vita

La vita è bellezza, ammirala.
La vita è beatitudine, assaporala.
La vita è un sogno, fanne realtà.

La vita è una sfida, affrontala.
La vita è un dovere, compilo.
La vita è un gioco, giocalo.
La vita è preziosa, abbine cura.

La vita è ricchezza, valorizzala.
La vita è amore, vivilo.
La vita è un mistero, scoprilo.
La vita è promessa, adempila.

La vita è tristezza, superala.
La via è un inno, cantalo.
La vita è una lotta, accettala.
La vita è un’avventura, rischiala.
La vita è la vita, difendila.
La peggiore malattia oggi
é il non sentirsi desiderati
ne’ amati, il sentirsi abbandonati.
Vi sono molte persone al mondo
che muoiono di fame,
ma un numero ancora maggiore
muore per mancanza d’amore.
Ognuno ha bisogno di amore.
Ognuno deve sapere
di essere desiderato, di essere amato,
e di essere importante per Dio.
Vi é fame d’amore,
e vi e’ fame di Dio.

Ama la vita così com’è
Amala pienamente,senza pretese
amala quando ti amano o quando ti odiano,
amala quando nessuno ti capisce,
o quando tutti ti comprendono.

Amala quando tutti ti abbandonano,
o quando ti esaltano come un re.
Amala quando ti rubano tutto,
o quando te lo regalano.
Amala quando ha senso
o quando sembra non averlo nemmeno un po’.

Amala nella piena felicità,
o nella solitudine assoluta.
Amala quando sei forte,
o quando ti senti debole.
Amala quando hai paura,
o quando hai una montagna di coraggio.
Amala non soltanto per i grandi piaceri
e le enormi soddisfazioni;
amala anche per le piccolissime gioie.

Amala seppure non ti dà ciò che potrebbe,
amala anche se non è come la vorresti.
Amala ogni volta che nasci
ed ogni volta che stai per morire.
Ma non amare mai senza amore.

Non vivere mai senza vita!

Trova un minuto per pensare, trova un minuto per pregare,
trova un minuto per ridere.

Le opere dell’amore
sono sempre opere di pace.
Ogni volta che dividerai
il tuo amore con gli altri,
ti accorgerai della pace
che giunge a te e a loro.
Dove c’e’ pace c’e’ Dio,
e’ così che Dio riversa pace
e gioia nei nostri cuori.

Siamo solo sassolini buttati nel mare
che fanno increspare l’acqua.

Il giorno più bello? Oggi.
L’ostacolo più grande? La paura.
La cosa più facile? Sbagliarsi.
L’errore più grande? Rinunciare.
La radice di tutti i mali? L’egoismo.
La distrazione migliore? Il lavoro.
La sconfitta peggiore? Lo scoraggiamento.
I migliori professionisti? I bambini.
Il primo bisogno? Comunicare.
La felicità più grande? Essere utili agli altri.
Il mistero più grande? La morte.
Il difetto peggiore? Il malumore.
La persona più pericolosa? Quella che mente.
Il sentimento più brutto? Il rancore.
Il regalo più bello? Il perdono.
Quello indispensabile? La famiglia.
La rotta migliore? La via giusta.
La sensazione più piacevole? La pace interiore.
L’accoglienza migliore? Il sorriso.
La miglior medicina? L’ottimismo.
La soddisfazione più grande? Il dovere compiuto.
La forza più grande? La fede.
Le persone più necessarie? I sacerdoti.
La cosa più bella del mondo? L’amore.

Madre Teresa di Calcutta

La bellezza della imperfezione

Negli anni ’90 ho visitato, a Parigi, il Museo del Louvre e ho avuto modo di ammirare le opere d’arte, custodite da secoli in quel luogo meraviglioso. A parte i dipinti di artisti famosi, alcuni dei quali italiani, come Leonardo da Vinci, autore della Gioconda, quadro di piccole dimensioni, ma intenso per la delicatezza delle immagini, che riprendono il paesaggio toscano, e per la misteriosa figura ammirata da tanti visitatori e definita unica e imperscrutabile, ricordo di aver fermato la mia attenzione sulla Nike di Samotracia, la Vittoria alata, acefala e priva delle braccia. La storia della statua in marmo pario, alta 245 cm, ci riporta all’anno 190 a.C. quando l’autore Pitocrito, nome che si legge sulla scultura, volle realizzarla per celebrare la vittoria di Rodi contro il re siriaco Antioco III. Per la sua bellezza e per il suo significato, fu collocata nel Santuario dei Grandi di Samotracia, l’isola che definisce l’appartenenza della Nike. La statua nel corso dei secoli, misteriosamente scomparve, ma fortunatamente venne ritrovata nel 1863 dall’archeologo francese Charles Champoiseau, ragion per cui la scultura venne acquistata dai Francesi e collocata fra le grandi opere del Louvre. La Vittoria alata, per il panneggio della sua veste e per la grandezza delle sue ali, comunica una sensazione di bellezza, nonostante sia acefala e senza braccia. Quello che manca alla Vittoria alata, viene immaginato dal visitatore che ricostruisce il viso e le braccia e trova nella imperfezione la bellezza di quell’opera d’arte. Molto spesso, la prima impressione che riceviamo dall’incontro con una persona o dalla visione di un dipinto, ci porta a definire bello o brutto ciò che vediamo. In verità il detto antico “non è bello quel che è bello, ma è bello ciò che piace“, insegna qualcosa, ma il giudizio estetico va riferito ad ognuno di noi, alla nostra sensibilità, oltre che alla nostra capacità di accettare e valutare persone e cose. Noi, esseri umani, sappiamo di essere imperfetti, ma è nostro dovere, essere perfettibili e credibili in ogni situazione.